Una piazza dimenticata

Luca Rolandi

Per capire quale fu il significato politico della strage della Banca dell’Agricoltura a Milano, è necessario ripercorrere il processo che ha portato progressivamente alla militarizzazione della lotta politica, di cui Piazza Fontana rappresentò nel 1969, il culmine più estremo. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il ricorso sempre più diffuso alla violenza, rappresentava per alcune minoranze estremiste il “mezzo più efficace e più rapido per modificare i rapporti di potere. La violenza diveniva quindi, per entrambe le parti contrapposte, neofascismoda una parte e sinistra extraparlamentare dall’altra, “l’acceleratore dei processi economici e sociali”.  

Il 12 dicembre 1969, con la bomba che esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Milano, gli italiani entrarono in una fase storica che sarebbe durata tre decenni: il terrorismo, la strategia della tensione, le stragi, il tunnel della violenza come infame forma di lotta politica.

Tutto ad un tratto, sulla scena nazionale comparivano morti ammazzati. E tutto partì, in modo non solo simbolico, ma con il sacrificio di vite umane innocenti da quell’ordigno contenente sette chili di tritolo, piazzato sotto una panca della filiale milanese che esplose alle 16,37, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio delle vittime fu di 17 morti e 87 feriti. Poi piste anarchica dapprima e poi neofascista, processi, rinvii, inchieste, altre morti e infine condanne. Ma resta una macchia indelebile nella storia nazionale, l’inizio di un tunnel di violenza e morte che avrebbe spezzato lungo un ventennio l’Italia negli anni Settanta e inizio Ottanta.

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